Nel ventunesimo secolo lo sport viene spesso interpretato come strumento per prevalere sugli altri, mezzo per raggiungere forme fisiche che rispecchino i canoni della società.

“Mens sana in corpore sano”, la citazione di Giovenale è ormai un clichè, ma nella realtà di tutti i giorni quanto è vera? Può lo sport rappresentare la chiave verso una forma mentis, in cui l’armonia tra anima e corpo divenga fondamentale? Esiste una remota possibilità che questo equilibrio interno  possa influenzare il rapporto con gli altri in maniera positiva? Quale modo migliore c’è per conoscere ciò che sembra essere lontano da noi se non quello di trovare  un linguaggio comune in cui si faccia tesoro di  culture, lingue, passioni, emozioni che si mescolano in un’unica grande squadra?

Si può attribuire allo sport un valore completamente nuovo pedagogico e soprattutto inclusivo, le virtù che gli atleti devono acquisire non sono l’ipercompetitività e il desiderio di prevalere sugli altri ma la passione per ciò che si fa, il rispetto delle regole e delle persone, la condivisione, la comprensione…

La didattica allo sport è molto più complessa di quello che sembra, ma può rappresentare per immigrati, disabili, persone di qualsiasi genere la chiave d’accesso verso un’integrazione che spesso sembra essere impossibile.

Proprio esso rappresenta una chance concreta di interiorizzare e apprendere i giusti valori, un ponte tra culture diverse che potrebbe gettare le basi verso un’Italia aperta e multiculturale.

Far parte di un team permette la formazione di un senso comune di appartenenza e partecipazione e di una conseguente crescita equilibrata che può influenzare nella sua interezza la società odierna.

Sono tanti gli esempi di atleti che sono riusciti a realizzarsi e tra questi molti hanno una storia difficile  alle spalle: fughe da scontri politici, di tipo bellicoso, situazioni familiari ed economiche complesse…Nonostante tutto, hanno vinto con un’arma che non miete vittime, ma che crea saldi valori e si basa completamente sul fair play: lo sport.

Klaudio Ndoja, classe 1985, è una di queste persone, primo cestista albanese della serie A, fuggito dall’Albania colpita da una guerra civile , è arrivato in Italia nel 1998 dopo un viaggio rischioso su un barcone. Il suo talento è stato scoperto da Don Marco Lodovici, prete che lo ha visto giocare in un oratorio nella periferia di Milano, è da lì che la sua carriera è iniziata.Quel ragazzo senza permesso di soggiorno, spaventato all’idea di dover essere scoperto ed essere rispedito nel suo paese natio, è riuscito a integrarsi e a far parte attivamente della società, a sconfiggere le sue paure.

Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di suscitare emozioni. Ha il potere di ricongiungere le persone come poche altre cose. Ha il potere di risvegliare la speranza dove prima c’era solo disperazione”. Nelson Mandela.

@foto Francesca Milani

Silvia Marchionne – Fuoriclasse

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